Ring infrastructural landscapes. Rethinking the metropolitan fringes. Conversazione con Nicolo' Bassetti

Autore: Stefano Sabatino

Data: 04/07/2014

RING INFRASTRUCTURAL LANDSCAPES. RETHINKING THE METROPOLITAN FRINGES. CONVERSAZIONE CON NICOLO' BASSETTI

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[Stefano Sabatino] Facendo un confronto tra il suo approccio e quello di Rosi al paesaggio del GRA, ho colto un aspetto comune, cioè che il GRA sia il mezzo e non il fine della vostra indagine.
Quello di Rosi è, di fatto, uno sguardo che, già programmaticamente, intende decontestualizzarsi dal GRA. Il suo obiettivo è quello di far emergere delle storie, e dunque il GRA diventa solo un pretesto narrativo. Infatti, nella postfazione del suo libro, Rosi dichiara esplicitamente: “Non ho voluto raccontare le incertezze e le contraddizioni sociali e urbanistiche del Raccordo. Il mio desiderio era di evocare il tratto leggero e la dimensione poetica che accomuna i personaggi e le figure che vivono nel film”.
Anche nel suo caso, la scoperta a piedi del GRA – giocata sulla lentezza tipica dell’esploratore urbano – avviene attraverso uno sguardo analitico rivolto non tanto all’infrastruttura ma a ciò che le sta intorno e a chi la abita.
Ha avuto modo di capire con che animo questi “abitanti del margine” guardano ai luoghi della loro quotidianità, luoghi di cui, inevitabilmente, l’infrastruttura costituisce l’elemento preponderante?


[Nicolò Bassetti] Avendo io scelto Gianfranco Rosi per questo lavoro, sapevo già che lui avrebbe intrapreso un percorso diverso dal mio, quindi è stata una scelta voluta e mirata perché volevo che nel progetto del laboratorio di narrazione affluissero sulla stessa traccia, sulla stessa linea di narrazione diversi linguaggi. Questo è importante perché il fatto che il libro abbia un approccio diverso dal film fa parte di un’idea complementare, di una narrazione plurale.
Venendo alla sua domanda, la sensazione è che ci sia un grande senso di appartenenza dei cittadini di questi luoghi, che però possono essere molto diversi tra loro, ed è un senso di appartenenza che viene, possiamo dire, da un senso di libertà dalle regole, che poi può voler dire anche sentirsi abbandonati dalle regole. C’è un incrocio tra chi ha scelto quel luogo e chi ci si è ritrovato, tra chi ci passa e chi ci sta per scappar via o chi ci passa attraverso. Quindi, in qualche modo, è una piazza, cioè un luogo dove spesso avvengono incontri inaspettati, cosa che, nella quotidianità di un centro più definito, è più difficile che accada. La capacità di incontrare persone diverse da te, in quei luoghi, è maggiore. Addirittura, c’è una tendenza ad andarci proprio perché lì si possono incontrare occasioni. Quindi, in questo senso, è davvero un nodo.



[SS] Nel momento in cui si effettuano indagini che hanno come oggetto di studio la città e si mettono in luce, con occhi nuovi, luoghi o fenomeni apparentemente poco rilevanti o poco “nobili”, ci si pone, inevitabilmente, la questione delle ragioni sottese ad un’operazione intellettuale di questo tipo. Cosa possiamo imparare, secondo lei, dallo studio di questi luoghi?


[NB] Io sono partito con questo progetto più per un bisogno personale, che viene dai miei interessi e dal mio mestiere che è quello del paesaggista, incuriosito dai paesaggi della contemporaneità. Ero e resto meno interessato all’aspetto pedagogico. Cerco di rifuggire dal giudizio su quello che io vedo, posto che, ovviamente, nel momento in cui racconto una situazione, la giudico. L’attenzione è sempre stata, invece, quella di salvaguardare la dignità di quello che vedevo. Questo è l’asse portante, il pilastro sul quale ho cercato di lavorare, tentando, con grande impegno, di trasmetterlo anche al regista, alla persona che con me ha scritto il libro (Sapo Matteucci nda), ai fotografi che mi hanno accompagnato.
Il senso di questo lavoro è profondamente antiscientifico, ma non in contrapposizione alla scientificità, piuttosto in sovrapposizione ad essa. Vuole diventare un altro modo per raccontare, in cui il partire dai piccoli gesti quotidiani può essere una forma di narrazione, di comprensione di quello che sono i luoghi, della loro identità, delle loro aspirazioni, dei loro bisogni, dei loro sogni, delle loro paure, cioè tutto ciò che compone l’identità di un territorio. Quello che ho incontrato andando in tale direzione è il grande contrasto tra questo genere di ascolto, che è molto impegnativo e faticoso, e il fatto che molti di quei luoghi, che sono spesso una somma di fallimenti clamorosi, sono invece il frutto di politiche top-down, in cui è presente un’idea giudicante, assertiva, per non dire demagogica o ideologica di come la gente deve vivere. Le persone decidono di vivere come va a loro, prescindendo spesso in maniera inversamente proporzionale alla quantità di imposizioni. Ad esempio, il Corviale o il Laurentino 38 sono dei fallimenti non tanto perché il progetto è sbagliato, ma perché non hanno intercettato in nessun modo i bisogni, le paure e i desideri, cioè la quotidianità delle persone che ci vivono. Quei luoghi non rappresentano le persone che ci vivono. Nei luoghi che abbiamo attraversato, che sono stati realizzati attraverso operazioni di cosiddetto abusivismo di necessità, o edilizia spontanea, c’è un senso di appartenenza che è molto superiore ai luoghi progettati e imposti da una politica pubblica o privata. Questo non vuol dire che io dia su questo un giudizio positivo, piuttosto che lo spontaneismo supplisce alle mancanze della progettazione top-down, nella quale i professionisti del progetto hanno dimostrato di mancare nell’ascolto.



[SS] Sia nel libro che nel film, lei e Rosi vi avvicinate a questi paesaggi con uno sguardo positivo, atto a rintracciare e far emergere la profonda umanità dei personaggi che li abitano. Nelle intenzioni che l’hanno portata ad affrontare questo viaggio, vi è anche – magari sottotraccia – un atto di accusa verso quelle scelte, commesse in passato, che hanno posto le basi per la formazione di questi paesaggi marginali?


[NB] Non c’è alcuna denuncia o accusa. C’è un desiderio nell’impegnarsi molto nell’osservazione e, soprattutto, nell’ascolto che ritengo sia un’ineludibile necessità per ricucire e ricomporre i cocci di cui è fatto oggi il margine di Roma, e non solo di Roma. L’intento è stato quello di non schierarsi ideologicamente. Questo non per codardia ma per una scelta di metodo. Alcune zone lungo il GRA sono di una qualità straordinaria perché sono state trasformate in modo assolutamente istintivo dai cittadini che abitano quei luoghi. Ci sono dei luoghi di verde pubblico che sono stati completamente invasi da orti abusivi, però la vitalità che si è venuta a creare è talmente importante per l’equilibrio di quei luoghi che dà chiaramente il senso di cosa vuol dire per un cittadino appropriarsi di un luogo. La questione della legalità o dell’illegalità è l’ultimo dei problemi. In realtà, noi abbiamo documentato anche situazioni di profondo degrado. Questo per dire che tutto dipende dal grado di partecipazione dei cittadini ad un’idea di futuro.


[SS] Cosa sarebbero, oggi, questi luoghi se chi ha avuto la responsabilità di costruire la città nel periodo del boom economico, avesse agito in modo più lungimirante, invece che imporre un’“immagine preformata” che ha concorso al progressivo degrado del paesaggio suburbano? Guarderemmo con occhio diverso alle condizioni esistenziali dei personaggi che abitano questi paesaggi se il GRA non fosse, citando Purini, un “dispositivo stradale autoreferenziale”?


[NB] Quello che si percepisce a prima vista percorrendo il Raccordo alla velocità imposta è, come diceva Renato Nicolini, una situazione di sostanziale censura, che ci fa rimanere in superficie. Il nostro problema non è più vivere in un luogo ma spostarci il più rapidamente possibile da un luogo ad un altro. La sensazione è che se ci si ferma o si rallenta, immediatamente si coglie non il degrado, ma le mancate opportunità. Si vede una bellezza che non è diventata quello che poteva diventare. Ci sono dei vuoti, sia all’interno che all’esterno del GRA, di una qualità paesaggistica che puoi vedere solo se ti ci fermi dentro. Io credo che la percezione di ciò che restituisce la rappresentazione del brutto lungo il GRA, sia il frutto di una superficialità e di un’idea di velocità che non aiuta a comprendere.
Ma, anche in mezzo ad una deriva di fallimento, si coglie un’opportunità che porta a pensare che quel luogo potrebbe cambiare e diventare qualcos’altro. I Romani, d’altronde, sono straordinari nel prendere un luogo costruito per avere una certa destinazione d’uso e trasformarlo in qualcosa di completamente diverso.


[SS] L’architetto, per sua formazione, guarda a questi paesaggi con una finalità, uno sguardo modificativo proiettato al futuro. Non a caso, il saggio di Nicolini, che era un architetto, si chiude con un intento propositivo che esorta a sostituire l’immagine preformata imposta dal GRA con una nuova. Con quale prospettiva, invece, un paesaggista, uno scrittore, un esploratore urbano osserva questi paesaggi? Cosa c’è oltre l’aspetto descrittivo della situazione nel presente?


[NB] Il tentativo è stato quello di porre grande attenzione ai dettagli della quotidianità, che sono quelli che, spesso, danno identità ad un luogo.
Quello che ho cercato di fare è stato di non avere mai il problema di dover comprendere e ricondurre ad una logica quello che stavo guardando, quindi, l’intenzione non era di giudicare ma di ascoltare. Uno dei modi per far questo è imparare a perdersi, cosa che non è facile oggi in un mondo che ci dà tantissimi riferimenti e che quasi non dà più la libertà di perdersi.



[SS] Non è la prima volta che le aree intorno ai tracciati stradali anulari diventano luoghi di esplorazioni di tipo psicogeografico, percorsi di matrice narrativa, oggetto di analisi socio-culturale. Se pensiamo ai lavori di Sinclair sulla M25 di Londra, di McGuirk sul Rodoanel di San Paolo, di Biondillo e Monina sulle tangenziali di Milano, al lavoro suo e di Matteucci sul GRA, con il conseguente film di Rosi, si può convenire che non è un caso che scrittori, giornalisti, registi abbiano indagato con tale costanza questi paesaggi marginali dal punto di vista sociologico e culturale.
Ciò vuol dire che c’è qualcosa che va al di là delle singole specificità dei luoghi, qualcosa di natura anche simbolica e psicologica che fatalmente attrae l’interesse dell’uomo verso quegli elementi fisici che tendono a separare un dentro da un fuori?


[NB] Evidentemente c’è un bisogno, che viene rappresentato da una parte della comunità urbana. C’è la sensazione che dietro ci sia davvero una domanda, una domanda imponente di identità di luoghi nei quali la gente non si riconosce per come sono stati progettati e imposti, ma ha bisogno di una riformulazione della storia, della narrazione per sentirsi più con diritto di cittadinanza. Raccontare quello che accade non è come dire cosa deve accadere. E’ un bisogno per le comunità urbane che si stanno sviluppando in modo probabilmente cieco, attaccandosi come concrezioni lungo questi assi che sono le strade anulari, le quali sono state costruite per altri motivi, cioè per decongestionare e per rendere più razionale la viabilità. Invece, hanno prodotto quasi l’opposto. Il GRA produce città e tra un po’ sarà al livello di massima capienza, diventando come un qualsiasi boulevard intasato di traffico. Il problema ci sarà finché qualcuno capirà che tutto ciò deve essere affrontato in un altro modo, cioè pensando che anche quelle aree sono città e non solo luoghi della mobilità. I luoghi del GRA danno l’idea di essere una città incompiuta o dei paesaggi in transizione, fragili e temporanei, perché non sono il frutto dei bisogni, ma rispondono a logiche diverse, di mercato.


[SS] Lei ha affermato che, appena saliva sul GRA, le emozioni sparivano, sostituite dalla sensazione che quel luogo, quella strada, anziché raccontare, le stesse nascondendo qualcosa. Vi è dunque una forte discrepanza nel nostro approccio a questi paesaggi in base alla modalità con cui ne fruiamo. Ad alta velocità, sulla strada, siamo partecipi dell’indifferenza e autoreferenzialità con cui l’automobile attraversa lo spazio, mentre a piedi, alla velocità del pedone, mostriamo una maggiore predisposizione all’ascolto di questi luoghi. Tale discrepanza, però, non ha soluzione.
Esiste secondo lei la possibilità che un’infrastruttura stradale sia, invece, elemento rivelatore di una realtà, anziché – citando Nicolini – una “forma di censura delle contraddizioni della città”?


[NB] Assolutamente sì e, infatti, sono alla ricerca, per dei nuovi progetti, di situazioni e di contesti di questo tipo. Ad esempio, l’Appia antica può essere considerata la prima strada moderna. E’ dritta perché era una strada militare, non segue l’orografia, presenta terrapieni e sbancamenti, doppia corsia, aree per la sosta. Adesso è un museo a cielo aperto e lì, certo, si passa attraverso tutte le contraddizioni possibili. Dipende se si vuole fare in modo che un’infrastruttura non sia solo un’infrastruttura ma un tracciato che si lasci contaminare. Le tracce e i percorsi antichi hanno generato i borghi e le città ma i motivi non erano pianificati all’origine, bensì erano legati a bisogni e necessità più semplici. La composizione compatibile tra un frammento e un altro può generare più rapporti e più comunità che non un’ordinaria pianificazione urbana.


[SS] Il film dà una visione quasi idealizzata dei personaggi che abitano intorno al GRA, come se fossero dei cittadini non ancora contaminati dal conformismo e dal cieco individualismo della società contemporanea.
Sembra che conducano una vita altra, in un’atmosfera a volte surreale, quasi di sospensione. Tuttavia, ad esempio, il personaggio dell’attore di fotoromanzi, che in una scena del film è alla guida della sua auto sul Raccordo, dimostra come il GRA sia quasi una centrifuga infernale, in grado di risucchiare, abbrutire e uniformare chiunque entri nella sua orbita. E’ la conseguenza inevitabile del mutamento antropologico apportato dalla motorizzazione di massa?


[NB] Io ho incontrato tantissimi personaggi che pur vivendo a pochi passi dal Raccordo Anulare, non hanno nulla a che fare con esso. Lo guardano con un senso di distacco che è come quando si vive lungo un fiume che c’è da millenni. Per esempio, la comunità dei pastori vive molto prossima al Raccordo, il quale è parte della loro quotidianità dal punto di vista acustico, visivo e fisico. Essi utilizzano il Raccordo due volte l’anno, quando c’è la transumanza che fanno con i camion, quindi il significato del Raccordo, per loro, è poca cosa. Il traffico automobilistico, ferroviario, aereo, che in alcuni punti del GRA si sovrappongono, è, per loro, parte di un paesaggio ordinario, come guardare le nuvole o un tramonto. E’ come se il GRA fosse diventato un fenomeno naturale su cui l’uomo non ha alcuna possibilità di controllo. Noi abbiamo costruito delle infrastrutture che sono davvero sfuggite al controllo, e che hanno generato concrezioni, scorie – ma anche opportunità – che sono totalmente ingovernabili.


[SS] Lei ha dichiarato che il “Manifesto del Terzo paesaggio” di Gilles Clément ha costituito un’importante fonte di spunti e di riflessioni per il suo lavoro sul GRA. Il suo riferimento a quel manifesto sta nell’interpretare, in chiave più sociologica, i paesaggi infrastrutturali anulari come “territori di rifugio per la diversità”?
Clément, inoltre, sottolinea il carattere di sospensione di questi paesaggi, in quanto sostiene che si tratta di spazi che aspirano a diventare qualcosa. Cosa aspira a diventare il paesaggio del GRA, secondo lei? Quali speranze nutrono i suoi abitanti per il futuro?


[NB] Io sono più d’accordo con la seconda affermazione. Trovo straordinaria l’intuizione di Clement riguardo all’idea di paesaggio di transizione come luogo di opportunità. Queste opportunità verranno prima o poi colte, o definitivamente perse.
La prima affermazione rappresenta, secondo me, un pezzo della realtà. I paesaggi del GRA sono sicuramente “territori di rifugio della diversità” ma non è una definizione sufficiente per inquadrarli, in quanto lungo il GRA esistono anche luoghi di grande conformismo.
Altri luoghi non sono stati recepiti per quello che erano stati progettati e sono stati fantasticamente smentiti, venendo a ricreare, quindi, uno stato di anarchia, di riappropriazione della realtà, che è tipica dei Romani.



[SS] E’ possibile, secondo lei, una via di riscatto per questi paesaggi? Ci sono i margini per immaginarli in futuro non come limite psicologico dove la città (se non addirittura la civiltà) finisce, ma come parte riconosciuta della città-metropoli?


[NB] Io ho sempre visto questo progetto sul GRA come un lavoro di ricerca di opportunità, proprio perché i fallimenti sono spesso delle opportunità.
Nelle motivazioni che Bertolucci ci ha dato alla consegna del Leone d’Oro, egli ha evidenziato come, in un momento in cui l’Italia ha bisogno di ascoltarsi, il film “Sacro GRA” va in quella direzione, in quanto ha ritratto una situazione reale, fatta di personaggi e di cittadini contemporanei che, nella loro fragilità, hanno bisogni, paure, aspirazioni. Questi aspetti devono diventare progetto di città. La politica, per fortuna, ha perso il suo aspetto di dirigismo ideologico. Essa deve diventare finalmente servizio, e quindi è fondamentale che sappia ascoltare.



[SS] Se, però, pensiamo che la tendenza, ancora oggi e in diverse parti del mondo, è quella di realizzare tracciati stradali anulari con un approccio spesso acritico e semplicistico, c’è il rischio che vengano commessi gli stessi errori e che questi paesaggi continuino a non essere considerati parti della città.


[NB] Ritengo che questo tipo di infrastrutture appartenga ad un modo obsoleto di pensare la mobilità urbana, ma quel rischio di cui lei parla genera la necessità sempre più impellente di raccontare; non di raccontare l’errore ma questo divenire, in modo che ci sia più complessità di narrazione, perché anche l’ideologia dell’andare contro per forza è semplicistica.
Se si pensa al Raccordo come alle nuove mura di Roma, lo si può anche immaginare, in futuro, come un giardino pensile. Il futuro del GRA può essere meraviglioso proprio perché ha una storia. A Berlino hanno trasformato un vecchio aeroporto militare in un parco in cui gli hangar sono stati mantenuti, insieme all’asfalto della pista, dove ora c’è una grande piazza di cui i cittadini si sono appropriati e in cui vi svolgono diverse attività.
L’High Line è ormai un’icona identitaria della New York contemporanea, in quanto è un luogo riconquistato dai cittadini.
E’ importante raccontare la storia che ci sta intorno a queste infrastrutture perché la narrazione genera bisogni e se questi cambiano, cambiano anche le identità dei luoghi.



Stefano Sabatino consegue con lode la Laurea in Architettura al Politecnico di Milano nel 2010. Dal 2011 è dottorando in Progettazione Architettonica e Urbana al Politecnico di Milano, dove conduce una ricerca finanaziata dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca nel campo dell’ “Architettura dei nodi, delle reti infrastrutturali e dei paesaggi attraversati”. La sua tesi intitolata “Ring infrastructural landscapes. Rethinking the metropolitan fringes” si occupa delle relazioni tra questo tipo di infrastrutture stradali e le dinamiche di crescita urbana in importanti città europee.