VERSO L’ALTROVE CONTEMPORANEO. Alla scoperta del centro lineare della Città Eterna
Autore: Nicolò Bassetti
Data: 19/06/2014
Intervento di Nicolò Bassetti a VISUALSCAPES - Pratiche visuali di ricerca urbana.
Mercoledì 18 giugno 2014, Università IUAV di Venezia.
Buongiorno,
siamo qui a ragionare su come i linguaggi non testuali possono supportare nuove pratiche di ricerca urbana. Sono felice che una occasione di contatto con il mondo della ricerca capiti per la prima volta a Venezia, dove il Progetto Sacro Gra con uno dei suoi figli, il film, ha vinto il Leone d’Oro alla 70° Biennale Internazionale delle Arti Cinematografiche. Per questo ringrazio in modo particolare Tracce Urbane e lo IUAV.
E’ la prima volta che un film documentario concorre in main competition e vince il premio più importante della più antica rassegna cinematografica del mondo. Questo fatto ha innescato alcuni interessanti movimenti tellurici, certamente nel mondo del cinema, ma non solo. La sensazione di avere rotto parecchi equilibri è stata immediata. Insieme al clamore per il successo, ci sono state delle polemiche (dal mondo della produzione e distribuzione cinematografica) e una certa rimozione (dal mondo accademico). Anche di questo se vorrete parleremo.
Ora qui posso contribuire portandovi la mia esperienza che, attenzione, sperimenta un “modo” più che un linguaggio. Più che provare a rispondere nello specifico alle principali domande che sono all’origine di questo confronto, tenterò di fornirvi alcuni elementi utili affinché ognuno di voi possa ulteriormente farli evolvere in nuovi stimoli.
Gli elementi che proverò a fornirvi sono gli ingredienti di una importante esperienza di ascolto, che in modo rigoroso ma per nulla predeterminato, scontato, è diventato un laboratorio di narrazione, coinvolgendo fino ad oggi i linguaggi della scrittura, del cinema, della fotografia.
Di Sacro Gra, del Progetto Sacro Gra, del laboratorio di narrazione che è diventato, di ciò che ha generato negli anni e di ciò che sta ancora generando, posso dire che all’origine di tutto c’è l’emozione, il bisogno di seguire le emozioni. E che alle emozioni questo progetto è rimasto sempre fedele, senza mai allontanarsene. Alle emozioni Sacro Gra deve tutto.
La prima di queste risale a 9, 10 anni fa, è un fluire di parole con due amici dell’Istituto per la Ricerca Sociale, Paolo Fareri e Claudio Calvaresi. Un fluire fertile come sono le parole che si associano libere dall’obbligo di generare un risultato. Parlavamo di nuovi modi per raccontare la città. Allora non lo sapevo, ma la cifra ludica che utilizzavamo, fatta di equilibri sempre in bilico tra realtà e rappresentazione, tra rigore e temerarietà, è stata una ginnastica fondamentale per poi darmi il coraggio di assumere una posizione al limite, sperimentale, che ha dato forza al progetto soprattutto nei momenti di difficoltà.
Il Grande Raccordo Anulare, il G.R.A., come sapete è la più grande autostrada urbana d’Italia.
Nel 2009 sono partito per il primo viaggio a piedi, 300 chilometri in solitario, 20 giorni. E’ stato come affrontare un mostro. Un mostro che non ho ucciso, ma ho conosciuto e ho imparato ad amare. Per trovare e scoprire quel gigantesco serpente cinetico figlio del boom economico e della motorizzazione di massa, che dal dopoguerra si inabissa e riemerge tra le maree della trasformazione urbana, mi sono fatto coraggio e mi sono perso, trasportato solo dalle emozioni, dal bisogno di esplorare dove sempre si passa e mai si vede.
Qual è il contesto in cui nasce il progetto? L’intenzione di realizzarlo arriva in un momento di crisi generale, anche mia professionale. Tutto nasce senza un centro o una specifica ipotesi di partenza. E’ un’idea che si nutre di bisogno di raccontare, che vive di risorse scarse. Procede per accumulo, con un moto costante. Immagazzina tanti tasselli, raccolti nel tempo, in condizioni spesso molto diverse. Sacro Gra è un progetto marginale nel senso pieno del termine. Stà al limite, tra realtà e rappresentazione, fatto della stessa materia di cui si occupa. E ha la stessa struttura del territorio che prova a raccontare. Un mosaico fatto di cocci, volutamente incompiuto, senza un inizio e una fine (vale per il libro e per il film).
Il viaggio inteso nel suo complesso, quello utile a scrivere il libro, a girare il film, a fare le foto, è durato tre anni. Più e più volte sono tornato, insieme ai compagni di questa avventura, sulle mie tracce.
Abbiamo attraversato quartieri iperprogettati, borgate spontanee, campi, orti, pascoli, cimiteri, comprensori vecchi e nuovi, enclave private, cantieri, aree archeologiche attrezzate, centri direzionali abbandonati, accampamenti, discariche, fiumi. Spesso l’antico si è annodato al contemporaneo e l’abbandonato al riciclato, in un sistema di metamorfosi perenni che non permettono alcuna definizione certa. Tutto cambia velocemente nella Terra di Raccordo. Anche la stessa nozione di margine diventa un confine sempre più ideale, alla luce di costanti mutazioni e confluenze.
Le informazioni che avevamo raccolto fino ad allora per identificare il G.R.A. erano frammentarie, anch’esse tutte legate alle emozioni, all’idea di leggenda metropolitana, quasi di mito popolare: “muro di suono”, “vettore di allucinazioni collettive”, “dinosauro della città moderna”, “sinuoso monolite orizzontale”, “prassi del limite”, “macchina celibe”. Un altrove contemporaneo.
Faccio un passo indietro. Prima del viaggio, qualche ricerca aveva dato risultati del tutto inattesi, del Raccordo non avevo trovato praticamente traccia in nessuna narrazione, né ufficiale né informale.
Ad eccezione di qualche performance e di un numero monografico della rivista “Gomorra” dell’Ottobre del 2005, all’interno della quale c’è un breve saggio di Renato Nicolini, dal nome “una macchina celibe”. In questo breve scritto, nel modo provocatorio e dissacrante che solo Nicolini poteva avere, egli afferma che il G.R.A., costruito per ordinare la mobilità caotica di una città disorganica come Roma, in realtà diventa una macchina celibe che non organizza un bel niente e anzi finisce per essere una forma di censura delle contraddizioni della città.
E’ questo l’innesco, la scintilla che dà inizio prima a brevi esplorazioni preparatorie e poi alla sfida, al viaggio a piedi vero e proprio. Finalmente l’orbita può diventare traccia sul terreno e sulla carta. La realtà del viaggio diventa una mole impressionante di incontri e visioni, assolutamente al di là di ogni previsione. Un bagaglio di esperienza impossibile da gestire da solo. Tanto abbondante e ricco che decido di chiedere aiuto, di provare a intercettare opportunità vaganti, gente che può darmi una mano. All’inizio è stata una condizione oggettiva di debolezza, data dalla scarsità di risorse. Poi questo agire è diventato sempre più scelta convinta, metodo, strategia. Come mai? Credo che la ragione stesse, e stia tuttora, nell’assenza di tesi preliminari e nella mancanza di scadenze, che ha consentito di non fare compromessi nel selezionare la qualità delle occasioni. Un “fare di necessità virtù” che è divenuto carattere forte, che ha consentito e più che mai oggi consente al Progetto di cogliere e offrire parecchie occasioni interessanti, sempre nel solco della sperimentazione e dell’incarnazione del limite.
E’ così che Sacro Gra diventa, è a tutti gli effetti un progetto “open source”, con una sua propria energia, costante e rinnovabile. Che cresce, si struttura, ancora oggi matura in una inarrestabile metamorfosi, alimentata di volta in volta da enzimi diversi, scelti sempre con cura ma poi lasciati liberi di fermentare intorno a una idea semplice, talmente semplice da risultare disarmante quando, come ora, devo provare a raccontarne la genesi e l’esperienza.
Ed eccoci al dunque. Si può dire che questo Progetto abbia degli obiettivi? Sì, si può dire, minimali, ma li ha:
• raccontare i paesaggi urbani contemporanei fermandosi ad ascoltarli con molta pazienza. Anzi, sarò più preciso: con moltissima pazienza;
• concentrarsi sulla poetica della quotidianità.
Di cosa è fatto?:
• di risorsa tempo (normalmente scarsa);
• di lentezza (antieconomica per antonomasia)
questi due elementi diventano i veri strumenti operativi, più del mezzo espressivo. La quotidianità è il teatro della rappresentazione, la scena.
E allora, dopo queste risposte, che cos’è in buona sintesi il Progetto Sacro Gra?
Direi che è un viaggio ordinario attraverso uno spazio irrigidito e reso invisibile dalla velocità. E’ un percorso che trasforma l’orbita di riferimento, il GRA, in un cosmo in cui una selezione di luoghi, persone, aspirazioni e destini assumono con le diverse narrazioni ogni volta un nuovo spessore, una nuova qualità, in qualche caso perfino una nuova apparenza e una nuova identità.
Il senso è quello di una chiamata allo sguardo, al racconto, prima, molto prima che alla scelta del mezzo espressivo. Al racconto come necessità di tracciare una memoria, come primo passo per immaginare un’identità, per capire i bisogni. E poi dopo, solo dopo un percorso di progetto che sia innanzitutto arte del rammendo. Perché sul G.R.A., lo sapete bene, atterrano progetti che si portano dietro molti interessi e racconti che non esistono, che iniziano la loro storia con clamorosi fallimenti identitari prima ancora che immobiliari. E ci sono borgate spontanee nate dentro gli orti, che si sono fatte città, con un senso di appartenenza straordinario, ma che sono negate e disconosciute perché figlie di una illegalità che a sua volta è figlia di un vuoto, di una storia che sta più dentro la memoria di chi ci abita che nei manuali di urbanistica.
La sostanza è che c’è un grande bisogno di racconto su cosa è, cosa sta diventando la quotidianità, la dignità degli individui che formano le nostre comunità urbane. C’è bisogno di racconti, di pluralità di linguaggi narrativi. Perché senza raccontarli i luoghi non esistono, non prendono vita o muoiono, la città non esiste, diventa invisibile.
Voglio dire ora una cosa precisa sulla scelta e sugli effetti della scelta del mezzo espressivo. Prendo un esempio per tutti. Francesco, il palmologo, rappresentato sia nel libro che nel film, assume due identità differenti, entrambe profondamente vere, autonome una dall’altra. Le domande che ci hanno fatto su di lui alla presentazione del libro e a quella del film erano diverse, come riferite a due personaggi. Questa faccenda ha generato un grande interesse sulla sua storia, che a sua volta ha generato interesse sul contesto in cui il palmologo vive.
Ciò accade a causa dei mesi passati a seguire e ad approfondire luoghi, caratteri, relazioni. Un vero e proprio elogio della conoscenza analogica, primitiva. Di scientifico in questa vicenda c’è l’ostinazione, la sofferenza, il perseverare nel seguire l’empatia.
Come dei naufraghi volontari, noi esploratori e narratori ci siamo inabissati nella Terra di Raccordo, abbiamo esplorato zone densamente abitate, immensi vuoti, paesaggi indefiniti, ci siamo fatti trascinare dalle correnti, dalle risacche e dalla perenne metamorfosi urbana.
La scelta, l’assunzione di rischio, è stata di puntare tutto sulla ricerca della quotidianità e delle consuetudini, sulla poetica dei piccoli gesti dell’abitare. La sfida è stata mettersi al servizio di quei gesti, cercando di raccontarne l’essenza, l’universalità, le emozioni, l’armonia, allo stesso modo in cui si cerca il silenzio in una partitura musicale. Non si dà musica senza silenzio. E il territorio post-metropolitano tende a ignorare il silenzio, difficilmente dona pause, luoghi che ci permettono di sostare, che ci consentono di “raccoglierci” nell’abitare attraverso il linguaggio di quei piccoli gesti. Il territorio che abbiamo esplorato è un territorio che non conosce le distanze, che non riconosce l’esperienza dell’attraversamento. Le distanze sono il suo nemico.
Ogni luogo incontrato durante i 300 chilometri a piedi ha prodotto in me uno sradicamento, un’emozione che la velocità annulla, o comunque trasforma, restituendo nel migliore dei casi la sensazione di un cambio di scena. Osservati con lentezza, quei luoghi strappati uno dall’altro sembrano destinati ad accartocciarsi, a perdere di intensità fino a trasformarsi in null’altro che in un passaggio, in un momento della generale “mobilitazione universale”.
Nei tre anni di lavoro al libro, al film, alle foto, insieme a Sapo Matteucci coautore del libro, a David Riondino camminatore francigeno e acuto menestrello, al regista Gianfranco Rosi e al montatore Jacopo Quadri, insieme ai fotografi della bottega di Massimo Vitali, abbiamo cercato di raccontare la sfida radicale che questi territori producono alle forme tradizionali della vita urbana.
Il G.R.A. è un terrain vague che trasmette un forte senso di città, inaspettato e spaesante, insieme ultramoderno e ultra antico. Qui identità è sinonimo di contraddizione, tutto si confonde in un preteso senso di mobilitazione universale che ti fa sentire la città ovunque, in una mescolanza di vuoti veri e vuoti falsi, di pieni veri e pieni falsi che finisce per negare l’idea stessa di città che abbiamo imparato a riconoscere: un sistema di luoghi con le proprie gerarchie all’interno di uno spazio. E se il G.R.A. fosse il nuovo centro lineare di Roma, la dimostrazione della infinita contemporaneità della Città Eterna? Può Roma aspirare a diventare una credibile metafora della complessità urbana?
Queste domande, che sono state e restano all’origine del confronto dentro il gruppo ad assetto variabile del progetto, hanno senso solo se le risposte non diventano scontro ideologico, che tanti danni e fallimenti ha già provocato. Queste domande funzionano solo se diventano l’occasione per ascoltare quella che Calvino chiamerebbe una “città invisibile, che come i sogni è costituita di desideri e di paure, anche se il filo del suo discorso è segreto, le sue regole assurde, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un’altra”. Queste domande possono funzionare per immaginare i tanti futuri possibili delle comunità urbane contemporanee.
Lo scrittore Sandro Veronesi sul Corriere, prendendo ispirazione e mettendo a confronto i due film “Sacro GRA” e “La grande bellezza”, scrive: la Roma monumentale è sempre stata sinonimo di tutela, conservazione, immobilizzazione del tempo e dello spazio. La Roma della viabilità tangenziale ha a che fare con il suo contrario, con l’eccesso di dinamismo e sviluppo. Il risultato sembra essere una città involontaria, che affratella due umanità altrettanto involontarie: una retroguardia che popola un centro immobile che non dà più frutti; un’avanguardia che popola un centro mai nato, che si riproduce ciecamente, dinamico e tangenziale.
Già, perché questa esperienza, semplice e analogica, dice che esiste con certezza un grande bisogno di ricostruire senso di appartenenza, diritto di cittadinanza
Questo bisogno è rappresentato da una parte sempre più consistente della comunità urbana, che esprime una forte domanda di narrazione dei luoghi nei quali vive e nei quali fatica sempre di più a riconoscersi.
Posso concludere che il senso del Progetto Sacro Gra è profondamente anti scientifico, ma in nessun modo in contrapposizione al sapere e al procedere scientifico in materia di progetti urbani, bensì in sovrapposizione ad esso, per disporre finalmente di un controcampo, di una narrazione autonoma. Dunque penso che l’esperienza del GRA suggerisce di sperimentare sempre, ancora. Di aprire sempre il proprio lavoro, di condividere il proprio sguardo a competenze e sensibilità diverse.
Perché la Terra di Raccordo, le terre di raccordo delle nostre città, sono, possono, fortissimamente devono essere innanzitutto una grandissima opportunità per ritrovare la dignità e il senso del vivere quotidiano.